Numero 7: Giulia

R: Ciao Giulia! Dai tuoi profili social si evince che sei una professionista dalle mille sfaccettature: criminologa clinica, docente di criminologia, giurista. Quale pensi sia la definizione professionale che ti rappresenta di più?  

G: L’aspetto multidisciplinare è proprio la mia forza. Con la vita di oggi bisogna essere pronti ad avere anche un piano b e un piano c. E’ stata una necessità quella di doversi specializzare ed essere competente su più campi. L’ambito della criminologia è di fatto un ambito multidisciplinare. Se dovessi proprio scegliere ti direi la criminologa.  

R: Oggi si parla tantissimo di criminologia, ci aiuti a capire meglio di cosa si tratta?  

G: E’ vero oggi di criminologia se ne parla tanto e male! I mass media danno informazioni fuorvianti. Tutti associano il criminologo a scene del crimine, sangue, tracce: quello non è il lavoro del criminologo ma dei tecnici della scientifica. La criminologia è la scienza che studia il reato in tutti i suoi aspetti: cause, dinamica, modalità, vittima, motivazioni che hanno portato al delitto, personalità del reo e relazione vittima – autore. In Italia si fa maggiore ricorso alla criminologia in temi legati al reinserimento, rieducazione e  risocializzazione del reo. Un altro ambito di applicazione è senz’altro quello della ricerca. L’obiettivo è cercare di capire da dove provengono i fenomeni criminali e come prevenirli.

 

 

 

R: La figura del criminologo in Italia è diversa rispetto all’estero?

G: Decisamente. La figura del criminologo in Italia non è ancora riconosciuta . Ci sono differenze a livello normativo tra l’Italia e l’estero. In Italia la criminologia è più presente nella fase di esecuzione, all’estero è invece presente nelle fasi d’indagine. In Italia si può collaborare con la polizia come ausiliari, nominati come consulenti di parte ma il criminologo è sempre un professionista esterno di cui altri si avvalgono.

R: Il tuo lavoro come criminologa clinica in cosa consiste?

G: Lavoro negli Istituti penitenziari come criminologa clinica, figura regolamentata e selezionata con un concorso pubblico. Il lavoro è finalizzato al reinserimento e alla risocializzazione del condannato. Io lavoro con la persona e faccio una revisione critica per comprendere le cause del disadattamento sociale, le caratteristiche personologiche che lo hanno portato a commettere quel reato e se effettivamente ha consapevolezza della gravità del reato commesso.  Si lavora in équipe: oltre a me ci sono altre figure, l’assistente sociale ad esempio si occupa dell’analisi esterna e mi riporta la situazione familiare ed economica.

R: Quali sono gli aspetti più complessi del tuo lavoro?

G: E’ un lavoro impegnativo a livello professionale e personale. Nessuna storia è facile. Le cose non sono mai come sembrano. E’ importante approcciarsi con quella che mi piace definire “empatia scientifica”.  Ogni volta che mi approccio ad un caso cerco di non avere dei preconcetti. Leggo gli atti dopo avere parlato con la persona proprio per evitare di costruirmi un‘idea che deriva da una mia interpretazione. Ho imparato a cercare di non giudicare dalla prima impressione. C’è sempre una motivazione di fondo a quello che succede. La vita non è una cosa semplice. E’ fatta di coincidenze, circostanze, connessioni. In questo lavoro sei sempre appesantita da storie difficili, tristi. Dopo un lungo lavoro insieme capita che qualcuno torna in carcere e devi parlare di recidiva, considerare cambiamenti che non avvengono, tollerare delusioni e sconfitte. 

R: L’altro aspetto del tuo lavoro riguarda la cybercriminologia. Sei autrice del libro “Cyber-odio” , sei stata ospite al TedxFerrara. Ci spieghi meglio come nasce il tuo interesse per questa tematica?

G: Nasce da un disprezzo. Ho iniziato a notare che proliferavano programmi sulla vita delle persone che avevano processi in atto e se ne parlava con odio e superficialità. Quello che si vede alla tv, lo vediamo noi, le vittime, i giudici. Non possiamo pensare che questi programmi non ci influenzino. Questa cosa mi ha sempre fatto arrabbiare moltissimo così come mi fa arrabbiare l’odio che gira nel web. Mi colpisce la morbosità degli utenti per i contenuti violenti come le foto dei massacri e dei dettagli macabri. A questo si è affiancata l’attenzione per il revenge porn. Con la mia collega Roberta Brega ci siamo appassionate a queste tematiche e abbiamo iniziato a studiarle da un punto di vista criminologico e giuridico. 

R: Hai parlato degli aspetti potenzialmente negativi legati ai social media, ma quali pensi siano invece quelli positivi?

G: Gli aspetti positivi sono tantissimi. Non intendo mai demonizzare il mezzo ma credo sia necessario rendere gli utenti consapevoli dei rischi. Se il messaggio ed i modelli sono positivi la facilità di diffusione è una cosa splendida. Nella mia esperienza lavorativa i social sono stati veramente utili per fare rete con professionisti del mio campo e non solo. Molte persone con cui oggi lavoro le ho conosciute online ed è cosi che si può anche venire a conoscenza di un evento interessante o di una bella iniziativa.

R: Cosa consiglieresti a chi vorrebbe intraprendere il tuo percorso?

G: E’ un percorso molto complicato. La materia è appassionante, lo capisco, ma il criminologo è una figura con parametri poco definiti quindi è un percorso lungo e complesso. Consiglio di conseguire una laurea magistrale (ad esempio in giurisprudenza, come nel mio caso, o in psicologia)  e specializzarsi poi con master universitari o riconosciuti Miur perché serviranno poi nei concorsi. Per il resto pazienza, passione e creatività perché spesso il lavoro “va inventato”.

R: Quale caratteristica personale è stata più utile e quale invece un ostacolo nel tuo percorso?

G: E’ la stessa caratteristica. Io ho un caratteraccio. Sono poco diplomatica e non amo i compromessi. Il mio essere decisa mi ha aiutato nei momenti di sconforto in cui i sacrifici non trovavano riscontro pratico, però, allo stesso tempo, è stato un problema perché se qualcosa non mi sta bene, non posso fare altro che dirlo. In più sono una donna. L’ambiente del tribunale e l’ambiente penitenziario sono molto maschilisti. Per me essere considerata una bella donna è stata spesso una cosa un po’ complessa da gestire. Ho sempre sentito di dover dimostrare di più, di dovermi tutelare, magari tenendo le distanze, con il rischio di risultare quella stronza o che se la tira, ma io non sono così. Durante il percorso di studio ho fatto la modella per anni e ho sempre sentito di dover dividere questi miei due aspetti. Avevo paura di essere giudicata. Oggi voglio dire che non deve essere così: possiamo essere tante cose. 

R: Qual è il Numero Primo che ti rappresenta di più e perché?

G: Credo il 7 perché ha un significato che mi piace molto. In alcune culture è simbolo di completezza intesa come equilibrio. A vederlo non lo diresti mai! Se si immagina qualcosa di completo si pensa a numeri come 0 oppure 8 perché simmetrici, chiusi e finiti. Il 7 invece è pieno di spigoli ed è quello il vero equilibrio: non bisogna essere perfetti ma accettare imperfezioni e fallimenti.     

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